Lunedì 9 ottobre ci siamo trovati in tante e tanti al Teatro Centrale, per raccontare questi 12 mesi di opposizione.
Di seguito potete trovare il testo integrale dell’intervento.
È passato un anno. Abbiamo perso le elezioni e siamo all’opposizione.
Un anno fa siamo andati in campagna elettorale in condizione disperate. Alla fine il nostro massimo obiettivo, non era vincere, ma provare a pareggiare.
Il nostro argomento principale era evitare la vittoria della destra, abbiamo chiesto un voto utile agli italiani. Abbiamo detto scegli tra il rosso e il nero, ma con due contraddizioni che si sono rivelate esiziali.
La prima è che alla denuncia del rischio del fascismo non è seguita una politica di alleanze conseguente. Da comitato di liberazione nazionale. Dal PCI a Badoglio per capirci. La seconda è che non avevamo “La” nostra proposta di governo. Un candidato o una candidata presidente ed una formula di governo da offrire al Paese.
Alla domanda dell’elettore, “Se vi voto che fate?”. Si capiva dalla risposta che in ultima analisi noi tifavamo pareggio, prospettando una riedizione del governo Draghi e delle grandi intese. Cosa di per sé non disdicevole, se poi matura nei numeri reali del parlamento, ma che non può essere il messaggio ai cittadini con cui chiedi il voto.
Così la rottura di Conte e il tradimento di Calenda non gli hanno fatto pagare un prezzo proporzionato all’enormità del favore fatto alla destra, a cui è stato consegnato sul piatto d’argento un voto anticipato per il quale erano gli unici competitivi. Praticamente un rigore a porta vuota.
Nonostante le difficoltà, noi la battaglia l’abbiamo fatta, perché era giusto. Ma parlando con le persone in quella campagna elettorale ho capito che una delle ragioni per cui l’appello al voto utile contro la destra risultava poco efficace con gli elettori, è che era passata l’idea “Che tanto anche se vincono poi durano poco”. Addirittura, mi è capitato di sentire elettori dirmi “Io stavolta non vi voto, ma mi raccomando poi mandateli via”. “A votare non ci vado tanto poi cadono e ci pensate voi.”
È come se avessimo introiettato, così profondamente l’argomento dei nostri avversari, che il PD è un partito che ha governato senza voti, che alla fine votarci non era più neanche necessario. Perché tanto avremmo governato lo stesso.
Una sottovalutazione tornata spesso. È vero che nella scorsa legislatura di questi tempi, si votava la fiducia al governo Conte 2 dopo l’estate del Papetee. Ma lì la legislatura era iniziata senza un vincitore chiaro, i 5 stelle erano un partito di maggioranza relativa con il 32% e la coalizione di centrodestra era prima con il 38%.
Il contratto di governo tra Cinque stelle e la Lega non resse al tentativo di spallata di Salvini dopo le elezioni europee. Ma il centrodestra come Giorgia Meloni ci ha voluto ricordare già dall’insediamento, è una coalizione politica consolidata che ha i numeri in Parlamento e nel Paese per proporsi di governare l’intera legislatura. Non è detto che succeda, ma mi sembra un po’ ingenuo continuare a pensare che cadranno da soli.
Questo è il senso della riflessione che vi voglio sottoporre pensando che è dalla comprensione dei punti di forza e di debolezza dell’avversario, che verrà la possibilità di tornare a sconfiggerlo.
Giorgia Meloni è la prima presidente del Consiglio del centrodestra dopo Berlusconi nel 94. Penso sia utile analizzarne similitudini e differenze.
Partiamo dalle similitudini e quella probabilmente più grande è quella dello schieramento. Berlusconi, Bossi, Fini nel 1994 adesso Meloni, Salvini, Tajani.
Passa il tempo, cambiano i fattori attorno, ma lo schema a tre punte più una piccola appendice moderata resta uguale dal 1994 il centrodestra marcia diviso e vince unito.
Come allora la coalizione funziona con partiti che competitivi tra loro, ma che poi una volta che hanno vinto si sono tutti messi in riga per governare insieme.
Chi prende un voto in più fa il premier e comanda e guida la coalizione, gli altri competono, ma non rompono mai.
Di Berlusconi la Meloni mantiene e rinnova quel mix di antiparlamentarismo, di ostilità verso gli intellettuali, di anticomunismo.
Tante similitudini, ma anche grandi differenze.
Una semplice: Berlusconi era uomo, Meloni è donna.
Berlusconi cadde dopo quella grande manifestazione di “Se non ora quando” che in nome della dignità delle donne italiane, mobilitò trasversalmente il Paese.
La Meloni invece è donna, che si porta dietro anche un’idea di riscatto più generale delle donne italiane. Porta su di sé l’immagine dell’underdog: la donna che ce l’ha fatta con le proprie forze. Che si è affermata nonostante il padre l’abbia abbandonata da piccola.
Come dicono quelli bravi è uno storytelling nuovo, un racconto molto diverso del passato, tant’è che ha recuperato una quota di voto femminile che con Berlusconi il centrodestra aveva perduto.
Silvio Berlusconi era il miliardario dell’antistato e dell’antipolitica. Giorgia Meloni è una professionista della politica, ha fatto la gavetta. Ha cominciato dalla provincia di Roma e dalle sezioni di quartiere. Ha una lunga storia da militante e politica della destra. È tutto tranne che antipolitica
Berlusconi era Milano, la Meloni è Roma. Il vento del Nord interpretato da Berlusconi era il vento della secessione, della Lega. Era l’idea o entriamo in Europa o si sfascia l’Italia. Negoziamo le condizioni dell’ingresso in Europa in nome del Nord produttivo.
La Meloni è una destra nazionalista, che ha, non casualmente, nella Capitale una forza storica. Noi oggi diciamo Fratelli d’Italia è al 27% in Italia, ma Gianfranco Fini nel 94 a Roma prese il 47%. Nelle MSI nelle elezioni comunali del 93 prese il 30%.
Quindi ha una tradizione politica non è improvvisata.
Infatti, è vero che Fratelli D’Italia dal 4 al 27% fa un balzo, come lo fecero i Cinque stelle, ma la loro forza negli apparati dello Stato e la conoscenza della macchina di governo è molto diversa e poggia su quella tradizione. Come esemplificato dalla nomina di Mantovano a sottosegretario della presidenza del consiglio.
Anche la nozione di conflitto d’interessi, si pone in condizioni molto diverse la Meloni rispetto a Berlusconi. Anche rispetto alla magistratura, e lo vedremo più avanti, e anche con il sistema degli interessi delle lobby.
Quel “non sono ricattabile” detto nei giorni delle trattative per il governo dice molto sul cambiamento dei rapporti di forza dentro al Centrodestra e con la società.
Quindi la Meloni è continuità col centrodestra, ma è anche un fenomeno nuovo
È stato un anno in cui il governo presieduto da Giorgia Meloni si è occupato principalmente di accreditarsi sul piano internazionale.
Già era avvenuto per la verità prima delle elezioni perché, la vittoria dentro al centrodestra di Fratelli D’Italia nasce nel momento in cui con chiarezza Fratelli D’Italia si schiera a sostegno dell’Ucraina, senza le titubanze filorusse di Salvini e Berlusconi e ancora prima quando diventa leader del partito europeo dei conservatori.
Da quella postazione si accredita negli Stati Uniti sia con i Repubblicani, sia verso l’amministrazione Biden.
Ma in questo anno la preoccupazione principale del governo è stata quella di limitare i rischi che il contesto internazionale li delegittimasse e quindi il discorso alla NATO, la visita a Biden, il sistema di relazioni internazionali. Avrete riconosciuto Kissinger.
Segnano una collocazione atlantica che viene considerata dal governo come un’assicurazione per la stabilità interna e per questo viene così esibita.
Allo stesso tempo vedete che l’ordine del giorno di Giorgetti sin dall’inizio è stato “saremo prudenti, rassicuriamo i mercati, faremo manovre conservative”. E allora arrivano la Metzola, Michael e la Von Der Leyen.
Di fatto sul piano europeo il governo si è collocato tra quelli che pensano che bisogna tornare indietro rispetto alla scelta fatta durante il Covid di promuovere gli eurobond con l’obiettivo di sostenere quei Paesi come l’Italia che più erano stati colpiti dal COVID.
Loro hanno scelto fin da subito di collocarsi in quel fronte più moderato e più conservatore che guarda spera nelle prossime elezioni europee una possibile vittoria dei nazionalisti e teorizza come Giorgia Meloni ha fatto in Italia, un’alleanza tra conservatori e popolari che sposti a destra il baricentro delle politiche europee.
Per fare cosa? Per tornare ad un’Europa più intergovernativa e meno spazio comune, un’Europa meno improntata alle politiche di sviluppo e alla crescita economica. Pensate adesso in questo stesso periodo gli Stati Uniti stanno rilanciando la loro economia con poderose politiche pubbliche di investimento e attrazione di insediamenti produttivi.
Noi non siamo certo quelli che lavorano per sfasciare i conti. Non lo abbiamo mai fatto anzi, siamo stati accusati del contrario. Però la responsabilità verso i conti può essere tenuta con due modi diversi: uno di destra e uno sinistra. Loro austerità che genera recessione fermando la transizione ecologica, noi investimenti strategici e visione verso gli Stati Uniti D’Europa.
Lo abbiamo visto nella legge di bilancio dello scorso anno. Stretta sui conti, tagli orizzontali, definanziamento di fatto della sanità con l’unico obiettivo di ridurre il debito a qualsiasi costo. Hanno lasciato lo spazio solo per qualche condono e la flat tax per fare contente le proprie corporazioni di riferimento, ma senza neanche vantarsene troppo.
Una linea continuata con il PNRR, che viene visto con disgusto e fastidio dal governo. Infatti, mentre si cerca di evitare di spendere le risorse a debito, benché abbiano tassi di interesse molto più vantaggiosi dei nostri, si lavora per accentrare tutto sotto il ministro Fitto per nascondere a Palazzo Chigi i ritardi, gli sprechi, tagliano solo i fondi di quelli che veramente li usano: i comuni.
Lo vedremo purtroppo ancora meglio con la legge di bilancio. Non vi fate ingannare dalla NADEF che aumenta il deficit. Gli serve solo perché tra tassi di interesse e le loro politiche recessive non c’erano i fondi, neanche per prolungare il misero taglio del cuneo fiscale che hanno fatto. Ma adesso vedrete che arriveranno i tagli, arriveranno lacrime e sangue e cercheranno di dare la colpa a noi, al commissario Gentiloni, come stanno facendo da mesi.
Ma la verità è che sono solo austerità, rigorismo e mancette.
12 ministri su 24 più la presidente stessa avevano ruoli di primo piano ai tempi di Berlusconi. È quindi un governo che rivendica la continuità politica del centrodestra e dà un equilibrio interno alla coalizione che aiuta la stabilità anche per la presenza nel governo dei leader dei partiti alleati.
Forse è più interessante soffermarsi sulle operazioni politiche fatte per organizzare il consenso intorno al governo.
Innanzitutto, Lollobrigida all’agricoltura. Il ministro più di partito a presidiare il ministero di maggior consenso organizzato, che con il cambio del nome che con la sovranità alimentare diventa anche un elemento di identità politica.
Poi Abodi. Delega allo Sport e ai giovani. Una figura di destra, stimata, dirigente sportivo l’ambizione di essere il Malagò della destra. Fattore di identità e consenso organizzato.
Stesso discorso per San Giuliano alla Cultura con il Mollicone a supporto. Si sono dati la missione di smontare passo passo il lavoro in 9 anni di Franceschini, in nome della lotta all’egemonia culturale della sinistra.
Possiamo far finta che sia una macchietta perché non legge i libri dello Strega, ma in realtà c’è un’idea di utilizzo ideologico e propagandistico delle istituzioni, che si vede con chiarezza. Come quando parla Valditara, che fa le circolari su come si debba parlare della resistenza a scuola e utilizza le tracce di maturità per colpire gli avversari politici.
Se ci pensate anche la rinuncia ad avere un ministro dell’ambiente è una scelta politica identitaria per la destra. Pichetto Fratin ce lo ricordiamo solo per il nome curioso e l’incredibile manifestazione di egoismo, che davanti all’ecoansia della giovane attivista si mette lui a piangere. Ma che te piangi? Sono loro che vivranno i costi più terribili della crisi climatica, non noi boomers. Pure l’esclusiva ansia gli vuoi togliere?
Poi c’è una visione corporativa che ricorre il Medico Schillaci alla Sanità, il prefetto Piantedosi agli interni, il magistrato Nordio alla giustizia, la consulente del lavoro Calderone al Lavoro.
Però attenzione non è un presidio identitario di settori importanti della società italiana, in una chiave revanchista o nostalgica. C’è una ambizione di allargamento del consenso e delle basi sociali del centrodestra. Schillaci rettore a Tor Vergata, di estrazione democratica moderata o la ministra Roccella che proviene dal Partito Radicale e dialoga con il mondo femminista.
Lo stesso Piantedosi che fa la faccia feroce dal decreto Rave a quello sulle baby gang e mette al servizio della propaganda anti centri sociali la propria indiscussa professionalità, poi fa alla cheticella il decreto flussi, come chiesto da Confindustria con 450 mila ingressi regolari di lavoratori stranieri nei prossimi tre anni. Cosa giusta, ma che evidentemente contrasta con l’impraticabile e costosa politica dei rimpatri per i migranti economici, che stanno già qui. E per i quali la sanatoria consentirebbe di coprire molte delle posizioni individuate dallo stesso decreto flussi.
E con il magistrato in pensione Nordio alla giustizia, si modifica la politica dello scontro frontale dei governi Berlusconi per fare un lavoro più subdolo e altrettanto pericoloso di delegittimazione e normalizzazione sotto gli indirizzi dell’esecutivo. Rilanciando l’immaginario della destra onesta e della lotta mafia, con l’obiettivo di dividere tra magistrati buoni e magistrati cattivi.
Quindi identità, corporativismo e consenso nei ministeri che gestiscono i grandi apparati dello Stato.
Invece ci sono politici di lungo corso e con un’immagine moderata nei grandi ministeri che hanno una proiezione internazionale. Tajani agli Esteri, Crosetto alla difesa, Fitto agli affari europei, Urso allo sviluppo economico e Giorgetti al MEF.
In questa lista non c’è Salvini che alle infrastrutture ha grandi poteri e risorse, ma mi sembra confinato in un ambito gestionale.
Questo stesso schema io lo vedo nella gestione delle nomine fatte dal governo. Là dove si affronta il giudizio della politica internazionale e dei mercati si fanno scelte equilibrate e “larghe”. È il caso delle conferme di Descalzi ad Eni e di Del Fante in Poste, del ritorno di Cattaneo questa volta in Enel, l’ex ministro del governo Draghi Cingolani a Leonardo e la prima donna alla guida di TERNA Di Foggia. E anche sulle presidenze con la nomina di Pontecorvo, Zafarana, Rovere.
In questo metterei anche la saggia scelta di conferma di Ruffini all’Agenzia delle entrate. Ma appena si esce dal cono di luce dell’attenzione internazionale si riproduce quel meccanismo identitario e di occupazione del potere fatto di norme aggressive e di sostanziali intimidazioni.
Lo abbiamo visto in Rai, negli enti previdenziali INAIL e INPS, nello spoil system dei ministeri, nello scioglimento dell’Agenzia di Coesione, nell’approccio alle nomine culturali, dal centro di sperimentale di cinematografia fino ai musei.
Nelle aziende di secondo livello delle ferrovie, dell’ANAS o del MEF come CONSAP, Sport e Salute, Sogin, Sogesid, Poligrafico. In tutti questi ambiti si consolida e si amplia la presenza diretta della destra. Basti pensare che alla SOGESID, società strumentale del ministero dell’Ambiente, è stato nominato Massimiliano Panero, che non solo è un noto nostalgico del ventennio piemontese ma è anche un negazionista climatico.
Questo è il loro modo di vedere il Parlamento.
Alla Camera il governo ha una maggioranza di 238 deputati su 400, al Senato 116 su 200.
Calderoli e la Casellati con la regia di diretta di Palazzo Chigi hanno subito messo al centro dell’iniziativa della maggioranza la volontà di andare ad una riforma costituzionale, che dia il colpo di grazia al nostro già fragile parlamentarismo.
C’è anche una responsabilità nostra che viene da lontano, abbiamo assecondato a lungo le campagne dell’antipolitica votando provvedimenti che ne confermavano le ragioni. Dall’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti alla riduzione dei parlamentari non ce n’è una che ci siamo risparmiati. Dal taglio della rappresentanza nei comuni e nelle regioni al divieto di incarichi della legge Severino fino a sostenere ogni legge elettorale che avesse al centro più la governabilità che il principio di rappresentanza dei cittadini. Modifiche dei regolamenti parlamentari tutte a favore dell’esecutivo. L’accettazione passiva del monocameralismo di fatto.
Abbiamo ripetuto fino alla nausea affermazioni assurde come “La sera delle elezioni voglio sapere chi ha vinto”, come se chi ha perso non dovesse avere un sovrappiù di attenzione nella tutela della sua rappresentanza.
Come se il problema della democrazia non fosse quello di tener dentro chi ha perso, ma piuttosto premiare di più chi ha vinto.
Così quando nel discorso sulla fiducia Giorgia Meloni ha posto la riforma presidenzialista della costituzione in una continuità diretta con il risultato elettorale. Lo ha fatto con la forza di avere una opinione pubblica e un sistema politico ormai assuefatti all’idea dell’inutilità del Parlamento.
E non è un caso che proprio da qua è partito il lavoro del governo per dividere i gruppi dell’opposizione tra di loro e al loro interno.
Troppo poco si è discusso sull’enormità di quello che è successo all’insediamento delle Camere, con l’elezione di La Russa alla Presidenza del Senato. Il gruppo di Forza Italia annunciò che non avrebbe partecipato al voto, esclusi Berlusconi e Casellati, La Russa ha sulla carta 99 voti, quorum 104, raggiunge 116 voti.
Si stimano quindi 17 voti fuori dalla maggioranza tra senatori a vita e senatori dell’opposizione. 17 su 94, una enormità. Quasi il 20%. Eppure il giorno dopo fu raccontata come una grande operazione della Meloni, che si era attaccata al telefono” con i retroscena che dicevano che da Via della Scrofa erano partite le telefonate ai senatori dell’opposizione con la minaccia del tornare alle urne e con l’appello a non far contare troppo Forza Italia, che voleva influenzarla troppo sulla formazione del governo.
Così invece di avere un’opposizione coesa ed una maggioranza divisa, qualcuno nel segreto dell’urna ha fatto da stampella al governo sanando le divisioni della maggioranza e rendendo ininfluente l’opposizione. Ha preso così fiducia la maggioranza che con Casellati e Calderoli a fare le riforme ha provato a mettere in fila Presidenzialismo, bandiera della destra, autonomia, Bandiera della lega.
C’è il tavolo delle riforme istituzionali dove si è vista la prima spaccatura tra le opposizioni. La disponibilità al dialogo del Terzo Polo, che poi si è diviso tra Renzi e Calenda su premierato e cancellierato.
Un lavoro che è continuato con il Superbonus e il reddito di cittadinanza, additati da tutta la maggioranza del centrodestra come il male supremo della nostra economia, ma in realtà usati per spingere a noi a dividersi tra chi era favorevole con i 5 stelle e chi era contro con Azione e Più Europa.
Uno schema riutilizzato dalla stampa di destra per cercare di spaccarci internamente con la lotta ingigantita tra massimalisti e riformisti interna al Partito Democratico, con la drammatizzazione dei toni e l’ombra della scissione evocata quotidianamente.
Come sull’elezione di La Russa non sempre in questo anno, nell’opposizione c’è stata, fino in fondo, consapevolezza dei danni dell’andare divisi in un confronto con il governo.
Già sulla legge di Bilancio, primo atto di governo in parlamento discusso alla camera quindi ho avuto modo di seguirlo da vicino come sapete faccio il Segretario della commissione Bilancio alla Camera, ci fu la distinzione del Terzo Polo, guidato in commissione da Marattin, di andare a Palazzo Chigi per trattare con il governo per portare a casa il rifinanziamento di industria 4.0 e festeggiare insieme la cancellazione del Reddito di Cittadinanza.
Oppure quando Conte è stato decisivo in consiglio di amministrazione della Rai per fare sponda per il cambio degli equilibri aziendali, con il risultato di avere messo in mano la Rai all’uomo di fiducia della Meloni, Giampaolo Rossi. Tutto questo in cambio di qualche strapuntino che vediamo quanto dura.
Conte è stato lesto a votare al posto nostro per il rappresentante alla Corte dei Conti, nel momento in cui avevamo posto la questione della rappresentanza di genere.
E anche quando assieme ai Verdi hanno cercato di farsi votare da Rampelli l’ordine del giorno contro il termovalorizzatore di Roma, non sono stati carini diciamo.
In sostanza a mio avviso il governo ha avuto tre direttrici di lavoro: legittimazione internazionale, occupazione dello spazio politico ed elettorale centrale del Paese e lavoro per dividere le opposizione. E noi?
Anche noi abbiamo oscillato quando sembravamo quasi pronti a dividerci, un pezzo verso i Cinque stelle e un pezzo verso il Terzo polo e molti di noi, che tanto abbiamo investito sulla nascita del Partito Democratico, perplessi davanti alle tante spinte centrifughe. Decisivo è stato dopo il congresso l’accordo tra la Segretaria Schlein e il Presidente Bonaccini. Per quanto possa apparire all’esterno un po’ farraginoso, penso che stiamo facendo quello che serve. Cambiare senza deflagrare.
Il problema più grande per l’opposizione è mettere insieme quello che fai fuori dal Parlamento a quello che fai dentro al Parlamento
Non è una novità per il PD. Bersani fu eletto con i gruppi parlamentari fatti da Veltroni. Renzi fu eletto con i gruppi parlamentari fatti da Bersani. Zingaretti con i gruppi parlamentari fatti da Renzi. Me lo dico da solo che ci sarebbe da discutere sul grado di rappresentatività dei parlamentari, nominati. È che quando sei al governo, come siamo stati in vari modi nelle ultime tre legislature, hai l’impressione di accorciare questa distanza tra il dentro e il fuori con le scelte di governo, con gli equilibri che ti dai, con le posizioni che la leadership del partito trasferisce in Parlamento.
Dall’opposizione è più difficile conta quello che dici e la coerenza tra quello che dici e fai in parlamento e quello che dici e fai fuori diventa parte della tua credibilità e l’unico pensiero che puoi portare a chi governa è la perdita di consenso per le cose che fa in Parlamento davanti al Paese.
Anche per questo è importante smetterla di pensare che il governo possa cadere nella legislatura. E che si possa aprire la strada per una manovra parlamentare. Mi sbaglierò ma c’è un solo scenario in cui questo può avvenire, se Fratelli D’Italia dopo le europee fosse così forte da poter avere la tentazione di provare la spallata cercando le elezioni anticipate. Uno scenario possibile con l’obiettivo per Fratelli d’Italia di avere la maggioranza assoluta in parlamento, cosa che questa legge elettorale gli consentirebbe se le attuali opposizioni si ripresentassero separate al voto.
Ma errare è umano, perseverare è diabolico.
Personalmente quindi ritengo improbabile ad oggi che Giorgia Meloni, per le cose che ho detto, ripeta l’errore che fece Salvini nell’estate del 2019 dopo il voto delle europee.
Peraltro a destra sono in corso movimenti che non garantirebbero più quell’assenza di avversari a destra che hanno avuto alle ultime elezioni politiche, lo vedremo alle europee.
Alemanno, Vannacci, ma soprattutto la vicenda di De Angelis che non è un improvvisato che scrive su Facebook d’istinto, è un quadro politico, è stato due volte parlamentare per Alleanza Nazionale. È intervenuto pubblicamente dopo che la Russa ha definito la strage di bologna, strage fascista. Riconoscendo la verità giudiziaria come verità storica. E il fatto che ci sia voluto un mese per decidere il suo allontanamento dalla presidenza della regione, è segno di una discussione, nel gruppo dirigente distretto della destra, su come definire il rapporto con la stagione del neofascismo.
Da parte nostra se ci pensate la coalizione del Salario minimo, cioè quella che ha sottoscritto la proposta parlamentare del salario minimo a 9 euro, se si presentasse domani di fronte alle elezioni anticipate unita contro la destra potrebbe provare a vincere le elezioni con un programma minimo di governo e sicuramente la destra al Senato non avrebbe i numeri per fare la maggioranza.
L’obiettivo politico del governo è dichiarato fin dal voto di fiducia in aula: durare 5 anni, produrre un ulteriore torsione del sistema istituzionale verso l’elezione diretta del premier in alternativa alla modifica presidenziale, uniformare il sistema elettorale degli enti locali a quello nazionale e ripresentarsi per un altro mandato alla guida del Paese 5 + 5 sul modello delle repubbliche presidenziali e più in generale dell’elezione diretta.
È una prospettiva velleitaria? Il governo di Berlusconi 2001 durò per 5 anni, forte della sua maggioranza elettorale nonostante i tanti rovesci elettorali. Anche quella, come questa, era una legislatura che non aveva nel proprio orizzonte l’elezione del Presidente della Repubblica. Il Berlusconi del 2008 2011 cadde non in Parlamento, ma per l’inadeguatezza ad affrontare il combinato disposto tra crisi economica e cambiamenti dell’equilibrio politico internazionale.
Certo può accadere che vinca Trump, smetta di sostenere l’Ucraina, ma questo segnerebbe la vittoria in tutta Europa delle destre sovraniste filorusse. Avremmo Vannacci leader della destra, non certo un rimbalzo progressista.
Quindi io penso che noi dobbiamo attrezzarci ad un’opposizione in Parlamento e nel Paese di lungo periodo. Poi se sbagliano, saremo pronti ad approfittare dei loro errori, ma non si può costruire una strategia di lungo periodo sull’aspettativa che sbaglino, anche perché come ho cercato di spiegare non sono degli sprovveduti.
In Parlamento in questo anno abbiamo avuto sicuramente delle sbandate e dei passaggi a vuoto. C’è una difficoltà dei nostri gruppi parlamentari a concepirsi all’opposizione. Quasi un riflesso istintivo di responsabilità. D’altra parte a volte si afferma una pratica aventiniana: l’uscita dall’aula e la non partecipazione al voto come soluzione per non sciogliere differenti posizioni interne, per evitare la fatica della sintesi o lasciare libertà di voto, quando serve.
Però io penso che alla fine abbiamo retto al tentativo di azzittirci, esemplificato dall’aggressione di Donzelli che in combutta col suo amico Del Mastro, aveva costruito un vero e proprio dossieraggio ai danni dei nostri parlamentari, che esercitando la loro prerogativa avevano visitato i detenuti al 41 bis Dell’Asinara. Un tentativo di azzittirci che va dal mantra “Ma avete governato per dieci anni, perché non l’avete fatto voi?” fino al sempre verde richiamo anticomunista, amici dell’URSS, amici dei terroristi, eravate sovietici.
Dalla risposta a Donzelli fino a costruire una proposta sul salario minimo unitaria di tutta il PD che è diventata una proposta parlamentare sottoscritta da Sinistra e Verdi, Azione e Cinque Stelle e calendarizzata in quota all’opposizione e su cui con la manifestazione di Sabato si è riconnessa una posizione di una parte del sindacato federale.
È sufficiente questo per costruire un progetto alternativo da presentare al Paese al momento delle elezioni? No, non ancora. Però è già una deterrenza sufficiente ai tentativi di ulteriori avventure. Ci possiamo fidare fino in fondo di Conte e Calenda o di ciò che ci sarà tra quattro anni alla fine della legislatura? No è bene coltivare il profilo del PD non solo per proporzionale, ma anche come leadership e tensione unitario a costruire l’alternativa, per far pagare un prezzo a chi potrebbe rompere un domani le alleanze.
C’è poi l’incognita sulla prospettiva futura dell’esito delle riforme istituzionali e della legge elettorale. Certo è che hanno i numeri e la propensione d’animo per fare le leggi elettorali che più gli convengono. Lo si è visto con il tentativo di modificare la legge dell’europee abbassando il quorum al 3%, sostanzialmente contro di noi e soprattutto con la volontà manifesta di cambiare legge elettorale dei comuni, adottando il cosiddetto modello siciliano. Di che si tratta? Del fatto che si va al ballottaggio solo se uno dei due schieramenti non raggiunge il 40% al primo turno. Le argomentazioni sono ovviamente le solite dal risparmio dei soldi per il secondo turno, fino al calo di affluenza nei ballottaggi. La verità è che vogliono una legge elettorale per i comuni e per le provincie, che li favorisca con il turno unico contando su un’omogeneità nazionale, regionale e comunale.
E perché vogliono modificare la legge elettorale dei comuni? Perché sanno benissimo che è lì che sono in minoranza. Governano la maggioranza delle regioni, ma l’Italia non è un Paese di regioni, ma di comuni. Nei grandi comuni la sinistra è in vantaggio e governa, come governa nella grande maggioranza dei comuni italiani, anche se 4000 andranno al voto in primavera.
Lo si è visto sui tagli al PNRR dove su 15 miliardi di tagli 13 sono ai comuni. Perché? Perché sono in ritardo? No anzi i comuni sono quelli più avanti, ma si tratta solo di una scelta meschina, solo perché non li governano. Come stanno facendo sulla proposta delle ZES al Sud in questo momento, in cui l’idea di Fitto di centralizzare gli incentivi delle zone economiche speciali nasconde la volontà di colpire Campania e Puglia, governate da noi. E hanno provato a far votare anticipatamente le città metropolitane, perché a Torino, Milano, Bologna, Firenze, Roma, Napoli e Bari governiamo noi.
La destra è semplice, basica nelle sue scelte per questo anche a Roma bisogna stare attenti. Con Gualtieri abbiamo vinto al ballottaggio, quando c’erano Draghi a Palazzo Chigi e Zingaretti in regione. Adesso ci sono Meloni e Rocca. Il rapporto istituzionale è giusto doveroso nell’interesse della città e del Paese perché la Capitale richiede uno sforzo di collaborazione istituzionale sia per gli eventi straordinari, sia per la sua ordinaria funzione di capitale.
Però attenzione a fidarsi troppo.
La federazione romana di Fratelli D’Italia che ha come commissario il prode Donzelli ha lanciato una campagna social violenta contro Gualtieri e la nostra amministrazione. Questi sono una piccola selezione dei post che Fratelli D’Italia di Roma ogni giorno negli ultimi mesi pubblica cavalcando l’emergenza rifiuti prima dell’estate e le proteste sulla ZTL.
Ci spendono ad occhio, è la mia impressione, normalmente in un giorno quello che la Federazione di Roma del PD spende in un mese e lo fanno taggando i nostri tutti i giorni, per entrare nella bolla social del PD cercando di alimentare un giudizio negativo perché pensano si possa arrivare a un implosione del centro sinistra a Roma.
Se vi guardate gli hashtag Romameritadimeglio, Romaincrisi, Bastadisagio. Ne ritrovate richiami in altri hashtag che stanno in pagine collaterali di finti comitati, finti movimenti che rilanciano in parallelo gli stessi slogan. Oltre ad un esercito di Bot nelle pagine dei quartieri.
Qualcuno si è stupito perché a Roma abbiamo fatto un congresso unitario, intorno alla figura di Foschi, che si è proposto su una linea di riorganizzazione del Partito nella città a sostegno dell’amministrazione. Dicono “lo avete fatto solo per difendere il Campidoglio?” e “Te pare poco?” con la destra romana post missina al governo e alla regione, qualcuno pensa che possiamo giocare?
Possiamo pasare il tempo a darci di gomito perché sui giornali esce male l’esponente dell’amministrazione di un’altra componente o di un altro partito della coalizione. Certo c’è da discutere di più, da confrontarci, da studiare i problemi, comunicare meglio, farsi vedere. Tutte cose vere, ma avremmo potuto mettere qui una carrellata di post, tweet, commenti, dichiarazioni che vengono dal nostro mondo che stanno lì a fare le pulci al lavoro gigantesco che si sta facendo a Roma, magari facendo anche qualche intelligenza con l’avversario.
Il caso più eclatante e anche quello più doloroso. È quello di un compagno, Alessio D’amato, che tanto ha avuto dalla nostra comunità fino ad avere il privilegio di essere candidato alla Presidenza della Regione, dopo trent’anni di onorato servizio nelle istituzioni, che qualche giorno fa posta la foto del Tram 8 con la scritta “Roma non riparte”, perché adesso è passato con Calenda e si considera all’opposizione.
Ma io dico. Fai l’opposizione a Rocca, in regione dove ti hanno messo gli elettori, invece di dare l’idea che ci sia un consociativismo nella gestione della sanità. Su cui dopo le iniziali polemiche, per la delibera a favore dei privati, da mesi non si sente più una parola da chi ha avuto il privilegio di guidarci nella battaglia elettorale.
Troppo duro? L’ho già detto che non stiamo giocando. Perché se diciamo che l’Italia rischia un lungo periodo di governo della destra, che riduce gli spazi di partecipazione democratica, penalizza i ceti popolari e mette in discussione sanità e istruzione per tutti preparare l’alternativa è un dovere politico a cui non ci si può sottrarre facendo l’opposizione in parlamento e alla regione.
Sappiamo tutti che il giudizio dei cittadini laddove governiamo è parte della costruzione del progetto alternativo di governo del Paese. Le grandi città in tutte le democrazie sono i luoghi da dove nascono i progetti politici nazionali e dove il pensiero progressista nasce e costruisce prospettive più forti. Questo è vero anche in Italia e Roma è la città più importante che governiamo.
Noi dobbiamo lavorarci su questo, su come creiamo un maggior orgoglio nel fatto che a Roma c’è una nuova leva di amministratori che con Gualtieri tra quattro anni si dovrà ripresentare al giudizio dei cittadini.
Io sono tra quelli che pensano che un po’ parleranno i risultati raggiunti, che sono comunque importanti, ma non si vota per quelli che hai fatto. Si vota sempre per quello che farai. Tra quattro anni conterà se noi siamo percepiti nel complesso a Roma come una nuova classe dirigente della città, onesta, laboriosa fatta da gente che ogni mattina quando si alzano si preoccupano che il pezzettino di responsabilità che gli è stato affidato abbia fatto un passo avanti rispetto al giorno prima, che sia la buca sul marciapiede o il grande progetto architettonico. Ognuno dalla sua postazione, con questo senso si responsabilità. Io credo sarà quello su cui oggi noi possiamo fare la differenza nella qualità dell’amministrazione e sarà quello su cui si verrà giudicati alla fine di questo mandato.
E quindi dal più giovane consigliere municipale al sindaco io penso che tutti dobbiamo sentire questa responsabilità. Perché dall’altra parte non c’è una destra di scappati di casa e quando sarà il momento della competizione elettorale non ci faranno sconti e noi dovremo essere all’altezza.
Io quando abbiamo iniziato questa esperienza romana, quando con Bettini e pochi altri abbiamo cominciato a lavorare per convincere Gualtieri a candidarsi a sindaco. Era chiaro a tutti che per tornare a vincere a Roma, bisognava ricostruire un rapporto di fiducia del mondo democratico del nostro partito con l’opinione pubblica.
A Roma il PD due volte ha deciso di interrompere prima la consiliatura, sciogliere il campidoglio. Una volta è arrivato Alemanno e una volta è arrivata la Raggi. Molti ancora non ci hanno perdonato. Quindi quando abbiamo iniziato sapevamo le difficoltà, eravamo consapevoli che avevamo un’opinione pubblica democratica e progressista, che ci guardava con attenzione e che non ci dava un mandato in bianco. Quindi, ogni giorno ci dobbiamo riconquistare quella fiducia e quel consenso che abbiamo avuto scegliendo Gualtieri, che poi vinse le primarie. Sulla vittoria di Gualtieri abbiamo investito nel programma elettorale, nella coalizione. Abbiamo costruito uno schieramento politico e civico, che tutto assieme ha vinto con Gualtieri.
Noi partivamo quarti nei sondaggi, alle elezioni comunali, dopo due anni e mezzi si possono spoilerare queste cose. Partivamo quarti perché c’era una sindaca uscente che era molto conosciuta e che comunque era sindaca uscente. Che aveva fatto cinque anni e mezzo di governo di fatto con un monocolore politico, quindi senza grandi difficoltà, con grande presa sulla macchina comunale e con un certo grado di consenso. Avevamo un leader nazionale di un partito come Calenda, che per un anno con grande impegno e grande utilizzo di risorse legittimamente ha fatto una campagna per partire da Roma e costruire una nuova prospettiva nazionale. E avevamo un centrodestra che quando è unito chiunque candida ha la robustezza per andare al 40 per cento e fare il risultato che poi ha fatto.
Intorno alla credibilità e alla serietà di Gualtieri con un centrosinistra rinnovato e con la capacità di aprire questa coalizione a forze civiche e di organizzarle in diverse liste si è costruita tanto la vittoria al primo turno e poi si è arrivato al 60% del voto dei cittadini.
Io penso questo oggi il sindaco è chiaramente anche un uomo di parte del nostro partito, personalmente abbiamo fatto 25 anni di percorso politico comune, ma è il sindaco ed è il primo cittadino di una città che tre volte capitale. Capitale d’Italia, Capitale della cristianità, Capitale della storia antica. Ha responsabilità verso l’intera comunità cittadina e ha vinto perché abbiamo costruito con la sua credibilità uno schieramento largo. Bene noi adesso facciamo l’opposizione, adesso, lo facciamo a livello nazionale a livello regionale, ma attenzione questo non vuole che noi a Roma possiamo trasformare questa amministrazione in una ridotta minoritaria.
Noi dobbiamo mantenere chiara l’impostazione iniziale, quell’idea larga di partecipazione di capacità di coinvolgere la città di parlare al popolo di Roma, di ricostruire una credibilità della nostra proposta e tanto più sarà forte la nostra capacità espansiva a Roma, tanto più noi potremmo contendere a questa destra robusta e che vuole prendere spazi ulteriori l’egemonia in una città che pesa nel simbolico e nel pratico.
Noi a Giugno avremo le elezioni europee tra nove mesi, questo è una proiezione di come oggi i sondaggi ipotizzano il nuovo parlamento europeo. Noi siamo i rossi e i gialli non sono i cinque stelle, ma sono i liberali.
Roma per il partito democratico alle scorse elezioni europee ha portato 330 mila voti, il 30% contro il 22% nazionale. Siamo il 5,5% del voto del PD. Lo dobbiamo sapere noi perché gli altri lo sanno. Ecco alle elezioni europee del giugno prossimo. Noi dobbiamo dare il nostro contributo da Roma. Io penso anche qua dicendoci anche un po’ il senso di questa iniziativa. Alle europee si vota per il Parlamento Europeo, non è l’anticipazione delle prossime politiche, non è il secondo turno del congresso del PD. Noi dobbiamo mettere al centro del voto il voto al Parlamento Europeo, anche perché è il terreno su cui noi tradizionalmente siamo più credibili.
Dobbiamo rendere chiaro che l’esito delle elezioni del Parlamento Europeo ha un effetto sulla politica italiana e sulle politiche che riguardano l’Italia. Per fare un governo senza i socialisti dovrebbero imbarcare i 73 di estrema destra, sono quelli dove c’è la Le Pen, dove ci sono i neonazisti tedeschi, in grande crescita. La maggioranza socialisti popolari, liberali, può avere i numeri. La maggioranza senza i socialisti esiste solo se entrano le forze dell’estrema destra.
Quindi ogni seggio parlamentare che il Partito Democratico porta alla famiglia dei socialisti modifica in più o in meno questi equilibri e questi equilibri portano ad un peso diverso dei contenuti nella nuova commissione. La von Der Leyen cinque anni fa ebbe solo 5 voti di scarto. La votarono i cinque stelle, fu l’anticamera del governo Conte 2, senza quel voto forse non ci sarebbe stato. Anzi lì fu la vera rottura con Salvini.
Allora noi abbiamo le elezioni europee a giugno, ci saranno le elezioni americane a Novembre, usciamo da questo primo anno di opposizione nazionale avendo ricostruito una nostra unità, il nostro baricentro. La nostra capacità di argomentare e di creare in Parlamento un rapporto tra quello che facciamo dentro e quello che facciamo fuori. La destra farà di tutto per queste elezioni europee, perché la durata della legislatura per loro è legata ad un peso internazionale della Meloni che le permette di essere determinate in quel parlamento europeo. Perché se non lo è poi cambiano le condizioni di quella legittimazione internazionale di cui abbiamo parlato prima poi alla fine possono non tenere, possono essere isolati, possono essere battuti. Quindi faranno le cose che gli convengono dal punto di vista della legge elettorale se possono, dal punto di vista della legge di bilancio, dal punto di vista del lavoro per intimidire le opposizioni e anche l’opposizione con i colpi bassi, come avete visto, laddove governiamo noi.
Quindi, abbiamo fatto 12 mesi adesso siamo pronti per una nuova stagione, dove possiamo fare la nostra parte. Il primo appuntamento dove spetterà a noi fare una grande parte sarà a Roma l’11 Novembre alla manifestazione nazionale del Partito Democratico. Io lo so tanti di voi, tanti di noi abbiamo tante cose nell’agenda quotidiana per l’amministrazione, per la politica, per la professione e a volte gli appelli alla mobilitazione sono sempre un po’ complessi. Però è chiaro che questa manifestazione riesce ed è qualcosa in più di lavoro organizzato solo se a Roma scatta un meccanismo di mobilitazione dell’opinione pubblica e popolare e questo lo deve fare il partito, ma questo è anche il messaggio che dobbiamo veicolare in tutti gli eventi fuori.
Io penso quello che ho detto sulla giunta comunale e sul lavoro del comune vale anche su questa fase dell’opposizione, noi dobbiamo lavorare di più su questo sentimento dell’opinione pubblica, sulla nostra capacità di essere popolari e seri, allo stesso tempo visibili nei quartieri, ma capaci di dare risposte. Intorno a questo unendo opposizione nazionale e capacità di governo arriverà il momento in cui costruiremo una nuova alternativa di governo.